GRANT HART
Gli Hüsker Dü non sono mai arrivati al successo, non hanno mai registrato qualcosa di simile a una hit. Però le persone che li conoscevano, li amavano. Grant Hart ha ricevuto sempre meno attenzioni di Bob Mould, sarà perché doveva urlare dietro una batteria mentre l’altro, piegato, ciondolava per il palco con la sua Ibanez a tracolla. Alla fine quella rivalità che li portava a dividersi i compiti in uno rigido schema fifty – fifty fu la chiave della loro prolificità e della loro grandezza. Le band di quella scena, di quel periodo, suonavano solo per amore della musica? Io ci credo. DIY? Io ci credo. Non c'erano soldi nel circuito? Vivevano di musica, di sussidi, dormivano dentro un garage o in chiese abbandonate, rubando scatolette di carne dai furgoni parcheggiati sul retro di fatiscenti ristoranti, semplicemente perché non disponevano di NULLA. Eppure continuavano a esibirsi, a registrare album. Ogni band che ancora oggi li considera un esempio, lo fa anche per questa loro solida etica del lavoro e del sacrificio. Ascoltate il secondo lato di “Zen Arcade” o anche solo "I'll Never Forget You" di Bob. Quanto somiglia al noise rock degli anni Novanta? "Don't Want to Know If You Are Lonely" di Grant non è la canzone che traccia la direzione di una parte consistente del movimento indie e alternative rock che avrebbe stravolto il mondo della musica appena cinque anni dopo?
Ho ripensato a quando li vidi nel 1987, il 16 giugno del 1987, al Big Club di Torino. Faccio fatica a ricordare il giorno della mia laurea, ma ricordo perfettamente quella sera. Del resto, se oggi sono quello che sono, nel bene e nel male, lo devo più a gruppi come gli Hüsker Dü che al mio cursus honorum. Grant stava per compiere 26 anni. Io ero a sei mesi dal mio ventunesimo compleanno. Il tempo si accorcia quando si invecchia, ma, allora, pensavo alla nostra differenza d'età. Solo cinque anni e mezzo. Lui aveva già fatto così tanto nella sua vita che sembrava fatto di un'altra pasta. In quel momento gli Hüsker Dü avevano già ridisegnato la musica rock e molta di quell'energia veniva da lui, una forza giroscopica di braccia e gambe, con quella voce stupefacente e libera che surfava sulle onde del rumore. Bob Mould appariva in perenne tensione, sull'orlo del baratro, e Greg Norton un poliziotto buono con la faccia di Ben Turpin. Grant aveva un aspetto serafico. Per un qualche motivo, forse solo felicità, scoppiai a ridere. Ebbi l'impressione che mi guardasse e, a sua volta, sogghignasse.
Lo rividi, nel dicembre 2010, sembrava smagrito, aveva passato momenti difficili, la voce era ancora forte, la mente inquieta.
Dopo lo scioglimento della band all'inizio del 1988, pubblicò l'EP “2541”, che prende il titolo dall'indirizzo di Nicollet Avenue che la band e la label Twin/Tone condividevano. Tre canzoni guidate dal pop perfetto della title track, il testo richiama esplicitamente ai giorni con gli Hüsker Dü, “Now everything is over/Now everything is done/Everything's in boxes/At twenty-five forty-one”. Il primo album solista “Intolerance” fu pubblicato dalla SST all'inizio del 1989.
Hart non è mai stato lo stereotipo del punk. Quando Mould lo conobbe nel 1978, era un sorta di hippy che girava ancora scalzo e non credeva nei deodoranti. Da adolescenti, si esercitavano nel seminterrato di sua madre alla periferia di St. Paul. Suo fratello maggiore Tom, che considerava il suo eroe, fu ucciso da un autista ubriaco quando aveva 10 anni; da Tom, Hart ereditò la batteria con cui avrebbe suonato negli Hüsker Dü. Sia dal punto di vista letterario che personale, è andato e tornato dall'inferno più di una volta.
“I don’t want to say I’m a normal person, because I’m the only person I’ve ever been. I want to be the most excited and exciting person that I can be.”
Grant Hart, Every Everything
Qualche mese fa mi è venuto in sogno. Giuro. Mi portava in giro per Minneapolis, “vedi, quella è la vetrina di “Metal Circus”, quella è la casa di “Let It Be””, andammo a mangiare in un ristorante di amici suoi, conosceva tutti e tutti lo conoscevano. Mi raccontava storie, storie rock’n’roll, e, inevitabilmente, mi parlava di Mould nel modo con cui un coniuge separato parlerebbe ai figli dell’altro genitore. Anche nel sogno aveva un pessimo aspetto, ma era d’ottimo umore, suonava ancora la batteria come un dannato, e in un delicato, meno riuscito, tentativo si mise pure al pianoforte. Sosteneva di essere pulito, ma girava per lo studio alla ricerca di un cubetto di fumo che aveva nascosto da qualche parte. Alla fine, mi squadrò dolcemente, quasi scusandosi, e mi disse: “Non è che posso farti “Zen Arcade” tutte le volte!".